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“Vedere è già un’operazione creativa”
Fu Henri Matisse a dirlo e, anche se al tempo non era certo possibile prevederlo, non molti decenni dopo gli studi neurologici sulla visione sono pervenuti esattamente alla stessa conclusione.
È Samir Zeki, uno dei pionieri della neuroestetica, a suggerire nelle sue pubblicazioni che il compito principale del cervello visivo e lo scopo di un’opera d’arte non siano molto dissimili. In entrambi i casi il fine è quello di giungere a una migliore comprensione del mondo e della realtà. E in entrambi i casi ciò avviene seguendo un processo attivo e dinamico.
Il parallelismo può suonare un po’ strano e forse anche piuttosto irriverente verso l’arte con la maiuscola, che siamo abituati a elevare su un piedistallo e circondare da un alone di sacralità. Ma il fatto che il mondo scientifico possa oggi amplificare la nostra comprensione della realtà con strumenti un tempo impensati, senza nulla togliere all’oggetto dell’indagine, significa solo che la nostra conoscenza sta arrivando spiegare ciò che prima poteva unicamente essere intuito. Allo stesso modo in cui le scoperte della fisica quantistica hanno confermato le verità tramandate da millenni dai saggi d’oriente.
Come funziona la visione?
Posto che il cervello ha il compito di conoscere il mondo, le aree cerebrali deputate alla visione hanno sviluppato una straordinaria capacità selettiva. In modo rapido e molto preciso riescono a processare una gran quantità di informazioni in continuo mutamento per individuare solo quelle utili a identificare le proprietà costanti di oggetti e fenomeni, scartando tutto il superfluo. Poi, confrontando le informazioni selezionate con il bagaglio di conoscenze visive immagazzinate in passato, il cervello riesce a catalogare l’oggetto o il fenomeno in questione. È questo che rende possibile riconoscere la costanza di una forma o di un colore nonostante l’estrema variabilità delle circostanze e sapere che una foglia è sempre verde, sia che la si osservi sotto la luce chiara del mattino, quella azzurrata del crepuscolo o il cielo plumbeo di un temporale.
E nell’arte invece?
Il processo non è poi molto diverso. Anche l’artista nel modellare l’opera persegue lo scopo di eliminare tutto il superfluo e scendere sotto la superficie del visibile per cogliere l’essenziale e l’universale. La rappresentazione di un oggetto perde allora le sue caratteristiche particolari per acquisire la forma permanente di tutta una categoria di oggetti.
L’osservatore, che possiede strutture neurali simili a quella dell’artista, entrando in contatto con l’opera può quindi ricevere quella comunicazione a un livello non verbale. E naturalmente ciò avviene a prescindere dal fatto che l’artista o il fruitore abbiano consapevolezza anche solo dell’esistenza delle strutture cerebrali che rendono possibile tale scambio.
La grande arte è dunque in grado di sollecitare il cervello dell’osservatore invitandolo a svolgere un compito che gli è familiare: cogliere l’immutabile dietro i molteplici aspetti della realtà.
Un esempio.
Prendiamo i quadri di Vermeer. Nei soggetti domestici e apparentemente banali prediletti dall’artista, sempre dipinti con un realismo impeccabile, si percepisce un senso di mistero che cattura e avvince con la sua potenza psicologica. Da dove proviene questa magia?
Tenendo presente quanto detto finora, poniamoci di fronte a La lezione di musica. La scena, che abbiamo l’impressione di osservare dal buco di una serratura, ci appare subito in tutta la sua ambiguità.
Seppure è chiaro il legame fra i due personaggi, nulla ci illumina circa la sua natura. L’uomo potrebbe essere il marito, l’amante o semplicemente un maestro di musica. La donna forse sta suonando, o forse solo accarezzando i tasti distrattamente, mentre entrambi riflettono su qualcosa che si sono detti. Lo specchio ci rivela che il volto della donna è rivolto verso l’uomo e anche lui la sta guardando, ma è difficile indovinare se vi sia complicità o imbarazzo, gioia o tristezza, se si tratti di una separazione, un incontro furtivo, una tranquilla scena domestica o soltanto la lezione evocata dal titolo.
Tutte queste ipotesi potrebbero essere valide, perché l’artista ha saputo creare una scena che si adatta perfettamente a una molteplicità di situazioni. L’osservatore, che ne viene attratto come da un labirinto, si sente allora sollecitato a frugare nel bagaglio della sua memoria alla ricerca di eventi utili a sciogliere l’enigma, propendendo ora per l’una ora per l’altra soluzione a seconda del proprio stato d’animo.
L’impossibilità di dare un senso univoco all’immagine, dove tutto resta implicito, riesce a parlare ai nostri circuiti neurali e coinvolgerli attivamente perché la verità, del tutto soggettiva, prenda corpo non sulla tela, ma nella mente di chi guarda.
Osservare un’opera con questa consapevolezza apre la porta a molteplici possibilità e permette di ampliare notevolmente la nostra comprensione sulla potenza comunicativa dell’arte. Un argomento su cui mi riprometto di tornare più volte, nella rubrica “arte e psiche”.