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Come ebbe a dire Mark Wayne Clark, il generale statunitense al comando della 5a Armata, “fare la guerra in Italia è come combattere in un maledetto museo d’arte”.
Anche lui però, seppure con riluttanza, finì per acconsentire alla distruzione di Montecassino nel febbraio del 1944. Solo un mese più tardi toccò alla Cappella Ovetari di Padova, polverizzata insieme al ciclo di affreschi del Mantegna, mentre il Cenacolo di Leonardo era sopravvissuto per puro miracolo alle bombe dell’agosto 1943.
Drammatiche istantanee della precarietà in cui versava lo sterminato patrimonio artistico e architettonico del nostro paese, alle prese da un lato con i bombardamenti a tappeto e dall’altro con l’avanzare del fronte, che dopo lo sbarco alleato in Sicilia stava risalendo la penisola trasformando città, borghi e campagne in una terra desolata, ricoperta di macerie.
Ma questi non erano gli unici rischi a cui furono esposti i tesori artistici italiani, come peraltro quelli di tutta Europa, durante gli anni del secondo conflitto mondiale. Esisteva un altro pericolo, non meno insidioso, e mi riferisco alla più colossale operazione di saccheggio del ‘900, sistematicamente messa in atto dai nazisti ai danni dell’intero continente. Tutto ciò avvenne durante la guerra, ma in Italia ebbe inizio molto prima.
La grande passione di Hitler
L’ossessione nazista per l’arte risale senza dubbio alle aspirazioni frustrate di Hitler, che in gioventù, nel 1907, si vide respingere dall’Accademia di belle arti di Vienna. Mosso anche da una mai sopita volontà di rivalsa, il Führer pose l’arte al centro del suo distorto pensiero, la utilizzò come arma di propaganda, lavorò ai plastici delle sue faraoniche città ideali gomito a gomito con architetti di grido come Albert Speer e stabilì canoni estetici rigidissimi, esercitando un feroce controllo sugli artisti di tutte le discipline. La cosiddetta “arte degenerata” fu messa al bando, salvo continuarne un lucroso commercio sottobanco, mentre, per assicurarsi che gli artisti incriminati non osassero più lavorare, agenti della Gestapo eseguivano controlli a sorpresa e un semplice odore di trementina o un pennello umido erano motivo sufficiente per un arresto.
Parallelamente Hitler lavorava ad arricchire la sua collezione personale, con speciale predilezione per l’arte germanica, la statuaria classica e l’arte rinascimentale. Mentre coltivava il progetto di costruire a Linz, la città della sua infanzia, il Führermuseum, che sarebbe dovuto diventare il più grande museo mai concepito, attingeva a piene mani alle collezioni confiscate agli oppositori politici e agli ebrei. E avendo intuito le possibilità offerte dall’occupazione di altri Paesi, si era già preoccupato di stilare elenchi di opere di cui appropriarsi appena possibile.
Gli occhi sull’Italia
L’Italia fu una delle sue prime scelte. L’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, chiamato suo malgrado a fare da guida durante la prima visita di Hitler a Firenze, nel 1938,
racconta che questi rimase letteralmente folgorato da Palazzo Pitti e dalla Galleria degli Uffizi. In preda a una vera e propria sindrome di Stendhal, il Führer si soffermava un tempo interminabile davanti a ciascuna opera, tanto da suscitare l’impazienza di Mussolini, che d’altro canto non possedeva una sensibilità artistica altrettanto spiccata.
Il Duce, il quale in un discorso del dicembre 1942 alla Camera dei Fasci affermò che avrebbe preferito “avere in Italia meno statue, meno quadri nei musei e più bandiere strappate al nemico”, non aveva particolarmente a cuore il patrimonio artistico nazionale e non si faceva quindi scrupolo di compiacere l’alleato in ogni suo desiderio.
Giulio Carlo Argan racconta di una commissione per l’acquisto delle opere d’arte capeggiata da Filippo d’Assia, il genero di Vittorio Emanuele III, che si faceva portavoce delle richieste naziste. Richieste che in genere riguardavano opere vincolate dallo Stato italiano, di cui sarebbe quindi stata vietata l’esportazione. Il ministro degli esteri Galeazzo Ciano, quando non Mussolini in persona, aggiravano però abilmente il divieto opposto dal ministro dell’educazione Giuseppe Bottai ottenendo sempre il nulla osta alla fuoriuscita delle opere, le quali spesso venivano pagate con complessi giri di valuta o acquistate all’asta da prestanome.
Centinaia di pezzi presero allora la via della Germania, a partire dal Discobolo, copia romana dell’originale in bronzo di Mirone, proseguendo con oggetti preziosi, arredi e dipinti di Tiziano, Tintoretto, Leonardo, Raffaello, Lotto, solo per citarne alcuni, in un’emorragia senza fine, diretta ad arricchire le collezioni private non solo di Hitler, ma anche di diversi altri gerarchi, il più vorace dei quali era senz’altro Hermann Göring. Solo quest’ultimo, già peraltro responsabile di aver incamerato l’intero patrimonio polacco e buona parte dei tesori del Louvre, fece partire dall’Italia centinaia di casse, che arrivavano a destinazione perfettamente sigillate, senza che gli addetti doganali si disturbassero neppure a controllarne il contenuto.
Licenza di saccheggio
Soldati tedeschi della “divisione Hermann Göring” in posa di fronte a Palazzo Venezia a Roma con un quadro prelevato nella Pinacoteca del Museo Nazionale di Napoli (oggi nel Museo di Capodimonte) prima dell’ingresso delle truppe alleate nella città, durante la cerimonia di restituzione delle opere alla RSI. 4 gennaio 1944. (fonte: Silvio Bertoldi, Salò, una storia per immagini Arnoldo Mondadori Editore, 1992, p. 57) – Bundesarchiv, Bild 101I-729-0001-23 / Meister / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/de/deed.en>, via Wikimedia Commons
Dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 e soprattutto dopo l’armistizio dell’8 settembre che portò i nazisti a marciare sulla penisola, la situazione precipitò ulteriormente. Gli espedienti delle finte vendite non furono più necessari e le truppe avevano spesso mano libera per requisire ciò che desideravano.
Uno dei molti esempi fu la vicenda delle opere evacuate da Montecassino dalla divisione corazzata Hermann Göring con lo scopo ufficiale di proteggerle dai bombardamenti alleati, ma in realtà con il chiaro intento di appropriarsene.
Solo mesi di trattative diplomatiche, un’azione congiunta del Vaticano e del governo italiano, nonché il forte pressing della stampa straniera, riuscirono a sbloccare la questione e costringere finalmente la divisione a restituire il prezioso carico, che fu riconsegnato in Piazza Venezia, sotto i riflettori della macchina di propaganda nazista. Peccato che all’appello mancassero ben 15 casse, le quali, si scoprì in seguito, avevano preso la via di Berlino come regalo di compleanno per il capo della divisione.
Un altro volto della Resistenza
Se i tesori artistici italiani sono passati in larga parte indenni attraverso questo momento storico di pura follia e totale confusione, è soprattutto per merito di persone che hanno lottato per proteggerli, a rischio anche della propria vita.
Non mi riferisco solo ai Monuments Men, resi celebri dal bestseller di Robert Edsel e dal film di George Clooney. Questo corpo paramilitare, istituito dagli americani quando si resero conto che i loro bombardamenti stavano rischiando di cancellare intere pagine di storia dell’arte, aveva il compito importantissimo di scongiurare distruzioni inutili e di salvaguardare per quanto possibile le opere dislocate nei teatri di guerra, ma era costretto a seguire la linea del fronte, procedendo di pari passo con l’esercito alleato.
Altri invece operavano dietro quella linea, in pieno territorio occupato. Uno di questi è Rodolfo Siviero, vero e proprio agente segreto dell’arte, che ebbe il merito di creare la prima organizzazione in difesa del patrimonio artistico, fra le cui fila militavano ex ufficiali dell’esercito, professori, partigiani, artisti, intellettuali. Leggendo il diario di Pasquale Rotondi, Soprintendente alle Gallerie delle Marche, si scoprono poi le rocambolesche vicende di un gruppo di funzionari delle Belle Arti, soprintendenti, direttori di musei che dopo l’8 settembre avevano disatteso gli ordini del ricostituito ministero della Repubblica Sociale formatosi a Padova e si erano rifiutati di trasportare le opere verso nord come richiesto da Mussolini. Donne e uomini che hanno combattuto con le armi a loro disposizione, si sono prodigati per proteggere le opere dalle requisizioni naziste, le hanno trasportate nottetempo sotto le bombe con mezzi di fortuna, tessendo al contempo relazioni diplomatiche per ricoverarle infine in Vaticano.
Le imprese poco note di questi eroi silenziosi, ricordate anche nella recente mostra “Arte Liberata”, allestita presso le Scuderie del Quirinale e conclusasi lo scorso aprile, sono uno dei molti volti della Resistenza ed è soprattutto grazie al loro coraggio se l’arte, la bellezza, la profonda identità del nostro Paese sono sopravvissute alla catastrofe per essere consegnate alle generazioni future.
Articolo pubblicato anche su: Il Libraio