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Se da un lato è indiscutibile che un disegno, un dipinto o un oggetto di terracotta non siano che strutture inanimate, al pari di un tronco d’albero o di un pezzo di roccia, è lecito domandarsi da dove vengano la vitalità e il movimento che ci pare di percepire quando i nostri occhi incontrano le forme dell’espressione artistica.
Il merito è tutto della nostra struttura neurale, di cui ho già parlato in un precedente articolo e del modo in cui le immagini statiche proiettate sulla nostra retina vengono processate dal sistema nervoso, il quale le trasforma in modo che, quando raggiungono la coscienza, abbiano già acquistato caratteristiche di dinamicità.
Le leggi della percezione visiva sono ciò che rende possibile sperimentare sensazioni, commuoversi, emozionarsi, o anche indignarsi di fronte a un’opera d’arte, riconoscendola non come un pezzo di marmo o una tela coperta di pigmenti, ma come una rappresentazione dell’esperienza umana.
Allo stesso modo in cui la fisica dei quanti ha ormai spiegato che gli oggetti apparentemente solidi non sono in realtà altro che campi di energia, anche il manufatto artistico si svela agli occhi di chi lo sa guardare non come un insieme di forme inanimate, ma come una configurazione di forze dinamiche.
Un esempio
Raffaello e aiuti, Spasimo di Sicilia, ovvero Andata al calvario, Museo del Prado, Madrid
La storia di quest’opera, di cui faccio menzione anche nel romanzo Sofonisba. i ritratti dell’anima, è piuttosto movimentata. La nave che la stava portando in Sicilia fece naufragio e, come racconta il Vasari, la tavola fu portata dalle onde fin sulle coste liguri, dove fu ripescata senza neppure un graffio. La cosa fece subito gridare al miracolo e rese necessario nientemeno che l’intervento papale per poterne assicurare la restituzione ai legittimi proprietari.
Ma soffermiamoci sul soggetto. L’intreccio di corpi, membra e panneggi che affollano la scena, rendendola caotica, intensa e drammatica, è un perfetto esempio di quel dinamismo di cui abbiamo appena parlato.
La sensazione di movimento è generata dalla gran quantità di linee oblique e dalla quasi totale assenza di elementi ortogonali. Tutte le principali direttrici, dalla corda e la lancia degli aguzzini sulla sinistra, al braccio teso dell’uomo a cavallo sulla destra, al possente gesto di Giuseppe d’Arimatea nel sollevare la croce, agli sguardi delle pie donne, rafforzati dalle mani protese della Vergine, hanno però uno scopo preciso. Quello di guidare l’occhio dell’osservatore direttamente verso il fulcro della composizione, che coincide con il Cristo caduto. Il braccio che lo sostiene come una colonna e il suo volto sofferente, eppure pervaso da una bellezza senza tempo, rappresentano il punto di equilibrio in cui tutte le opposte tensioni si annullano, permettendo allo sguardo di trovare riposo.
Un classico della psicologia dell’arte
“Il potere del centro” di Rudolf Arnheim è un testo fondamentale per chi desidera guardare all’arte con occhi nuovi e riuscire a cogliere, dietro la struttura di un’opera, gli accorgimenti compositivi più o meno consci che hanno permesso all’artista di trasmettere un particolare contenuto. Se la trattazione può forse a volte sembrare non semplicissima, gli esempi citati sono però illuminanti per imparare a decodificare il linguaggio dell’arte e scoprire che nell’organizzazione di forme, colori, oggetti e figure è possibile leggere a chiare lettere il significato di un’opera. Vediamone alcune brevi pillole.
Tiziano, Sacra famiglia, National Gallery, Londra
La chiave di questo dipinto sta nel personaggio di Giuseppe, che Tiziano, con una scelta a dir poco inconsueta, decide di collocare al centro dell’opera. È lui il tramite fra il mondo terreno sulla destra e quello celeste sulla sinistra. La sua figura tiene i piedi nel regno dei mortali, perché da lì lui stesso ha origine, ma si protende verso la Vergine e il Bambino con un gesto carico di ambiguità. Se da un lato sembra infatti voler invitare il pastorello, attraendolo anche con lo sguardo verso la Famiglia celeste, dall’altro però pare anche ritrarsi da lui e stabilire un netto confine, rimarcato dalla linea verticale del bastone e dalla sua mano, chiusa a pugno proprio davanti al volto del ragazzo. Un’ambiguità con cui Tiziano sa giocare a meraviglia per donare mistero e interesse alla sua opera.
Georges de la Tour, L’educazione della Vergine, Frick Collection, New York
Edgar Degas, Il violinista e la giovane, Institute of Arts, Detroit
La comparazione fra queste due opere così diverse, unite solo dal fatto che il protagonista della scena è un libro, mostra come un soggetto simile possa essere trattato con modalità diametralmente opposte e come le linee di forza possono essere non solo solo disegnate dalle forme, ma anche semplicemente dalla luce.
Nel quadro di de la Tour il libro emette raggi luminosi che vediamo letteralmente irradiarsi e illuminare il volto di madre e figlia, concentrate entrambe su di esso, con il risultato di rendere tangibile il legame delle due donne, unite dalla stessa devozione.
Per contrasto, le pagine bianche del quadro di Degas, a discapito della posizione centrale che occupa, non attira l’attenzione delle due figure, che peraltro si ignorano anche totalmente a vicenda. Con questa assenza di dinamismo e di interazione e con quelle pagine vuote che, invece di unire, sembrano dividere ulteriormente, l’artista riesce a creare perfettamente un senso di distanza e incomunicabilità.
Infine il più classico degli esempi: il capolavoro di Michelangelo sulla volta della cappella Sistina che, al di là delle simbologie e dei dettagli, vanta un impianto la cui solidità ha pochi uguali nella storia dell’arte.
Debole è il gesto di Adamo, appena nato al mondo, che pare sollevare a fatica il braccio verso quello del suo creatore, proteso invece con piena determinazione ed energia.
Bastano quelle due mani, che si incontrano nel punto di equilibrio del dipinto, a contenere l’essenza di tutta la narrazione.
Lì sta la potenza dell’immagine, in questa struttura semplicissima, composta da due centri ben definiti che interagiscono con forze opposte lungo un’unica direttrice, incontrandosi nel centro. E l’osservatore non può evitare di esserne istantaneamente coinvolto, l’occhio e la mente avvinti da quella scena, prima ancora di cominciare a decifrare l’argomento del dipinto.
Viene da chiedersi a questo punto se, spogliando queste immagini della loro veste simbolica e trasformandole in opere astratte, fatte solo di forme, linee e colori, il loro effetto sulla percezione dell’osservatore risulterebbe altrettanto chiaro. In linea di massima è proprio così e a supporto di questa affermazione non sono pochi gli esempi che potrei citare, ma l’argomento è vasto e complesso, quindi mi riprometto di approfondirlo adeguatamente in un prossimo post.